Da duemila anni la malattia mentale per eccellenza è la depressione. In passato veniva anche chiamata melanconia o pigrizia.
Non c’è differenza tra mente e corpo: è un tutto uno.
La nostra vita dipende dall’umore che ciascuno è in grado di costruirsi costantemente giorno dopo giorno. I neuro trasmettitori non regolano il nostro corpo, anzi è il nostro sistema nervoso che dipende dal nostro umore che sappiamo offrirci come possibile.
La vecchia melanconia è la perdita di umore. Il malumore, dunque, va aiutato a re-investire altrove. In Lutto e melanconia Freud ci ha indicato la strada che non è collegata a fattori genetici, né organici.
Altro che pillole! Ci vuole attenzione nei compiti e negli impegni di soddisfazione per promuovere ciò che è sepolto. Sepolto non vuol dire che non c’è, ma solo che non si vede in quanto nascosto alla vista, ma è udibile, perlomeno percepibile nei sogni, nei lapsus e negli atti mancati. Sottomettendosi agli adescamenti della nostalgia il soggetto si vanta tra i ricordi per rinnegare tutto ciò che gli si offre qui e ora come occasione di star bene.
L’emigrante che nella città di adozione avrebbe anche fatto fortuna – come si dice – con l’attività lavorativa, denaro, amicizie: riesce ad impedirsi di essere soddisfatto per il continuo legame con il proprio paese di origine nell’idea fissa della nostalgia di ritorno. E’ il pensiero non elaborato delle radici che fa trappola, che inibisce il pensiero che fa legame qui e ora con l’universo.
Non necessariamente il reale è ciò che si vede: Freud aveva messo bene in evidenza che le forme di rimozione sono ancora una difesa al patrimonio di salute del soggetto.
Nella storia dell’arte una lettura del reale del tutto allucinata permette al soggetto di esprimersi e di pubblicarsi: “non è vero, non è reale, è solo ciò che il pittore fantastica”.
E in quel “solo” c’è tutta la verità: sarebbe bastato coglierlo!
In quanti modi il reale si può leggere?
Nel pensiero fallimentare il problema sta nel fatto che l’individuo è diventato il maggiore azionista del proprio fallimento.

Che cosa è il lavoro d’imputazione? E’ ri-conoscenza.

Una paziente in seduta riferisce: “sono anni che parlo di mio padre e di mia madre quando in verità non mi interessano più di tanto!”.
Intervengo: “era ora!”.
Continua la paziente
 : “I miei sensi di colpa sono gli stessi che ha mia madre e che io ho assorbito come una spugna perché volevo essere più brava di lei.
Io non sono nata con questi sensi di colpa!”
Intervengo:”già”.
Sembra quasi che ci goda a non aver potuto-saputo dirle: non sopporto più le tue imposizioni!.
La paziente: “Non l’ho detto e me ne sono andata via furente. Ho permesso che mia madre s’intromettesse di continuo nei miei pensieri e nelle mie cose. Forse l’antipatia che sentivo nei confronti di mio padre è quella che lei provava per lui e che mi ha trasmessa. Ho sempre preso per oro colato tutto quello che mi diceva. Forse adesso è tardi?”.
Intervengo: “Il ri-conoscimento è sempre di dopo. E’ l’imputazione che conta: dirlo è riconoscerlo”.
Soltanto ri-conoscendo la propria storia ed imputandola si intraprende un percorso di guarigione.

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