L’inibizione si presenta come un blocco che non permette di godere del proprio tesoro, la mancata messa a frutto del proprio capitale per giungere a soddisfazione. E’ come un freno che non permette di poter accedere alla propria norma soggettiva. “Chissà cosa sarebbe se fosse disinibito, magari un poco di buono, o un pervertito!”. Ecco i predicati di un immaginario che lavora sempre per non lavorare mai. Ecco la doppia faccia del bene e del male, funzionale al mantenimento del blocco sia individuale che del disagio sociale. L’inibizione impedisce di esercitare un giudizio compiuto e, con esso, una corretta imputabilità.
Teorie presupposte e debolezza alimentano e mantengono il terreno dell’inganno e della falsa facciata che l’individuo è costretto a mantenere di sé per non riconoscersi. Quando il bimbo è attratto dagli estranei ad esercitare la propria curiosità ed intelligenza, se frenato, difficilmente imparerà a mettere in questione il rapporto nei confronti dei suoi affini-estranei. Così facendo diventerà vulnerabile e diffidente, e subendo l’ubbidienza rinuncerà di imputare coloro di cui ha paura di “perdere l’amore”.

E allora dove andranno le pulsioni?
Le pulsioni andranno dove potranno.
Gli aspetti neurofisiologici di un disturbo del genere sono solamente effetti di un modo sbrigativo e superficiale di non voler prendere in seria considerazione sé stesso. Ormoni ed aggressività sono giustificazioni alla non lettura della propria storia, al non mettersi in questione, per continuare a credere in una storia infinita ed onnipotente.

Freud ha abbandonato il metodo dell’ipnosi e ci ha consegnato uno strumento molto più sicuro ed affidabile: la norma soggettiva di ciascuno, cioè quella capacità che ciascun soggetto può possedere per ritrovare la propria soddisfazione se condivisa con gli altri.
Questioni inibitorie che ritroviamo nel linguaggio: “sarebbe meglio che…”, “chissà poi cosa la gente pensa…!”, “pare brutto!”, “per il tuo bene…”